Introduzione


Chiese e oratori, edicole o cappellette, piloni o capitelli, e dipinti devozionali
nel tempo hanno fatto dei centri abitati un grande percorso rituale,
quasi una grande chiesa in cui la popolazione,
spinta da una intensa spiritualità dettata dalla devozione spontanea,
si rivolgeva a Dio per mezzo dei suoi intermediari,
protettori della vita umana in ogni suo momento: la Madonna e i santi più cari.
Nasce così quella che dagli storici viene definita città rituale,
ossia l’ambiente urbano profondamente segnato dal sacro
per mezzo di elementi architettonici a carattere religioso.

Edicole, piloni e dipinti devozionali sono stati gli elementi minori e più diffusi
del reticolo di sacralizzazione del paesaggio. Vero e proprio arredo della strada,
hanno costituito l’aspetto più appariscente della pietà popolare.

Il termine “edicola” identifica un piccolo edificio,
solitamente a pianta rettangolare con absidiola semicircolare e copertura a due falde, capace di ospitare servizi liturgici
e utilizzabile anche come momentaneo ricovero per i viandanti.
Il suo aspetto architettonico ricorda quello del tempio pagano
-infatti la parola deriva dal latino ædes (
tempio)-
e sottintende la presenza di colonnine, di un frontone e di una cornice.
Costruiti prevalentemente lungo le strade -un tempo in massima parte di campagna- potevano anche essere addossati ai muri delle case,
mantenendo tuttavia una loro identità architettonica.


Edicola della Madonna.
Sesto Calende, località San Vincenzo.
Edicola della Madonna del Latte.
Sesto Calende, località Loca.

Il termine “pilone”, o “capitello”, evoca la struttura architettonica del pilastro,
eretto per sorreggere pesi di notevole entità. Privato della sua principale funzione,
assume significato devozionale trasformando le sue peculiarità in tal senso
poiché il fatto architettonico serve unicamente da supporto alla parte dipinta
che ne rappresenta l’elemento qualificante, identificante e la ragione di esistenza.



Capitello della Pietà.
Ranco, Via Castello.
Madonna del Carmine e del Rosario.
Ranco, Cascina Uponne.
Anni ‘70 del XX secolo
(Foto: Archivio Biblioteca di Ranco).

I “dipinti devozionali” sono quelle raffigurazioni a carattere religioso,
sporgenti o in nicchia, situate sulle facciate delle case,
sui frontoni o sui sovrapporti dei portoni quali elementi di protezione sia della casa che,
a seconda della loro localizzazione, anche dei viandanti.


Edicole e piloni solitamente erano posti lungo le strade in posizione dominante i crocicchi, le curve, i dossi, l’imbocco di sentieri e scalinate o all’inizio dei paesi
in modo da consentirne la percezione anche da distanze notevoli,
divenendo così un buon punto di riferimento ambientale.
Questi elementi a carattere sacro un tempo dovevano essere veramente assai numerosi; oggi molti di essi sono scomparsi, abbattuti insieme ai muri che li sorreggevano,
oppure si sono sbiaditi perché esposti alle intemperie e privati delle necessarie attenzioni, indispensabili per la loro buona conservazione.

A ognuno è capitato di imbattersi in opere di questo genere;
qualcuno le avrà superate distrattamente altri, forse molti,
si saranno interrogati sul significato della loro presenza e, soprattutto,
sul contesto sociale e culturale sotteso a espressioni artigianali e artistiche
così caratteristiche della cultura contadina.
A queste curiosità vuol dare delle risposte questo lavoro.

Le testimonianze architettoniche della devozione popolare hanno origini assai antiche, infatti, già in epoca romana dovevano essere assai diffuse poiché ogni famiglia
era solita collocare in una nicchia all’interno della casa piccole statue
o le immagini di divinità domestiche (i Lares domestici), e all’esterno, contro i nemici,
i simulacri dei capostipiti o le immagini dei protettori della città (i Lares publici).


Larario dipinto (I sec.),
su cui, accanto ai Lari,
al Genius sacrificante
e ai serpenti agatodemoni, sono raffigurati
Mercurio (dio del commercio e del guadagno) e
Dionisio (dio del vino).

Pompei, dal termopolio (bottega in cui nell'antichità
si servivano cibi e bevande
-quasi un moderno snack-bar-
) attribuito a Vetutius Placidus.


(in D'Ambrosio, 1999/2,
p. C.125).

Larario dipinto (I sec.),
I Lari sono raffigurati in alto,
ai lati della scena.
In basso è il serpente agatodemone,
protettore del focolare
e propiziatore della fertilità,
in atto di avvolgersi intorno all’altare
sul quale il padrone di casa,
raffigurato con le sembianze del Genius
(
protettore del capofamiglia),
è nell’atto di compiere un sacrificio
assieme alla sua sposa.
Partecipano al sacrificio
un giovanetto con offerte
e un suonatore di flauto.
Iscrizioni graffite ricordano
Caio Giulio Filippo,
un dono di gemme fatto da Poppea
(
moglie di Nerone) alla Venere pompeiana
e la visita dello stesso Nerone
al tempio di Venere.
Le scene di larario sono le manifestazioni
più frequenti di pittura popolare,
eseguite alla buona
e fuori dagli schemi decorativi parietali
(
“stili”).
(in D'Ambrosio, 1999/2, p. C.121).


Grande larario in forma di edicola (I sec.)
con frontone sorretto da semicolonne corinzie, decorato da oggetti in stucco relativi al culto.
Sulla parete di fondo sono raffigurati due Lari
con al centro il Genius
(
ossia il protettore del capofamiglia)
del padrone di casa in atto di sacrificare e,
al di sotto,
il serpente agatodemone
(
ossia protettore del focolare e propiziatore della fertilità).

Pompei, Casa dei Vetti.


(in D'Ambrosio, 1999/1, p. A.60)


Originariamente erano solo i campi a essere affidati alla tutela dei Lari, infatti,
ai confini dei poderi venivano collocati altari (le are) loro dedicati, circondati
da piccoli recinti che successivamente assunsero la forma di tempietti (i compita pagana) dotati di tanti ingressi quante erano le proprietà che confinavano in quel punto.
A circa 15 piedi (piede=29 cm circa) davanti a ciascun ingresso
doveva essere eretto un altare in modo che ciascun confinante
potesse sacrificare ai Lari restando nella sua proprietà.


Tempio posto
all’incrocio dei “limites”
(strisce di divisione).

Miniatura dal manoscritto Palatinus 1564 (IX secolo).
Roma,
Bibblioteca Vaticana, n. 45 v.

(in Filippi, 1983, p. 139,
Fig. 116)

Poiché la proprietà era sacra, i confini erano segnati con dei cippi (i termini) che,
a loro volta, avevano un valore sacrale e per questo erano posti sotto la protezione
del dio Terminus in onore del quale ogni anno, il 23 febbraio, era celebrata una festa:
la Terminalia. Durante questa ricorrenza i confinanti festeggiavano i termini comuni
e venivano offerti al dio un agnello, un maialino lattante e della frutta.
Con l’intento di propiziarsi ricche messi,
in mezzo ai campi spesso venivano collocate statue raffiguranti divinità della fertilità.
Tra le divinità preposte a tale funzione la più antica e la più diffusa era la Madre Terra (Dia), poi identificabile con le Matrone celtiche, con Cerere e da ultimo con la Madonna.


Nelle immagini sacre accanto alla Vergine, o autonomamente,
compaiono anche alcuni santi, la cui maggiore insistenza nella rappresentazione
è legata alla loro presunta maggiore efficacia riguardo a precise funzioni da adempiere,
quali quella di sollecitare la preghiera, di tener lontani guai e pestilenze,
di propiziare comunque la benevolenza di Dio e della Madonna,
di debellare il malocchio e le magie, di favorire i raccolti agricoli,
di evitare il fulmine e la grandine, ...
Ne consegue che un gruppo di quattordici santi,
la cui intercessione fu ritenuta particolarmente efficace in ordine a necessità specifiche
e a contingenze particolari, ebbe un culto speciale
che li accomuna sotto la dizione di santi Ausiliatori (Adiutores).
Pertanto più facilmente ci si imbatte in santi preposti a riti legati al mondo contadino
quali San Martino, Sant’Antonio abate, San Benedetto, Sant’Eurosia;
oppure contro le epidemie come San Rocco e San Sebastiano;
oppure santi taumaturghi come San Biagio, i Santi Cosma e Damiano,
San Carlo Borromeo.

Anche nella dedicazione di chiese e oratori
è possibile riscontrare i medesimi criteri che hanno condotto alla scelta dei santi
che per la collettività locale erano maggiormente degni di culto poiché più vicini
alle proprie esigenze, oppure perché dettati da un particolare periodo storico
o propri di determinati committenti quali, ad esempio, le Confraternite o i ricchi possidenti.


Le caratteristiche dell’iconografia religiosa popolare
possono essere ricondotte alle seguenti peculiarità:
- mescolanza di fede, superstizione, saggezza, magia e mitologia rurale
ccausata dai bisogni, dai condizionamenti e dalla fantasia
cche stanno alla base della cultura popolare;
- concreta aderenza alle esigenze della vita, sia quelle quotidiane sia quelle straordinarie,
cdi singoli o di gruppi;
- arcaicità e contemporaneamente capacità di rinnovarsi, di mutare,
cdi acquisire nuovi elementi pur mantenendone di antichi;
- ciclicità, ossia intima adesione della religione ai cicli delle stagioni e della vita umana:
cprimavera, estate, inverno; nascita, età adulta, morte.
Ne consegue una forma artistica di precipuo valore di documentazione storica
ed etnografica in quanto frammista di funzionalità, primitivismo, espressività, drammaticità,
capacità catartica, ripetitività dei temi, arcaicità dei motivi;
di collegamenti con le migrazioni di mano d’opera locale, con le immigrazioni e i commerci; di temi veicolati tramite la circolazione delle miniature, delle incisioni, delle stampe;
di mescolanza di spirito religioso con superstizione e credenze popolari;
di notevoli ritardi rispetto all’arte ufficiale e cittadina;
della compresenza di stili differenti.


Nel territorio Varesino,
nella maggior parte delle opere sopravvissute nel paesaggio moderno,
il soggetto più raffigurato è,
per le sue connessioni e identificazioni con i culti della Madre Terra e della Fertilità
che da sempre caratterizzano la cultura contadina,
la Madonna.

Le più antiche raffigurazioni della Madre di Dio
facilmente possono essere ricondotte ai modelli primitivi della tradizione ortodossa,
in particolare a quelli della Vergine Glykofilusa (o del dolce bacio),
della Odighitria (che indica la via),
della Galaktrophousa (che allatta) e
della Eleusa (o della tenerezza) giunta nei nostri paesi
mediata dall’edizione alpina della Mariahilfer (o Madonna dell’aiuto).


Iconografia schematica degli archetipi delle raffigurazioni della Vergine.
(in Oneto, 1984, p. 97, Fig. 8)

A queste si sono aggiunte forme prettamente occidentali come la Vergine dei sette dolori, la Madonna Addolorata, l’Immacolata-Assunta e immagini tipiche di particolari culti locali come la Madonna delle tre stelle, la Madonna di Caravaggio e, solo più tardi,
la Madonna di Lourdes.

La devozione era animata anche dalle confraternite, o congregazioni,
poste sotto il titolo della Madonna.
Notevole il divulgarsi dal 1544 della devozione del Rosario,
dalla quale ebbero origine numerosissime confraternite,
soprattutto per impulso dell’arcivescovo Carlo Borromeo.

I dipinti devozionali, che riproducono immagini sacre
o particolari paesaggi della tradizione sacra locale o un avvenimento religioso,
sono stati voluti dai nostri avi per trasmettere un messaggio di fede;
messaggio che, proprio per poter essere immediato
e accessibile anche a coloro che non sapevano leggere,
veniva comunicato per mezzo di simboli.

I simboli ci insegnano chi siamo e quando prestiamo loro attenzione,
prestiamo attenzione al significato della vita;
ci aiutano ad afferrare la realtà e, per questo,
figurano nella maggior parte delle religioni del mondo, nel loro insegnamento e nei loro riti.
Quando gli oggetti vengono trasformati in simboli,
viene loro conferito un grande potere psicologico,
tanto da divenire strumenti stessi del culto e dell'arte.
Infatti, fin dai tempi preistorici, nella storia intrecciata di religione e arte
si riscontrano i simboli che hanno commosso gli uomini e dato significato alla loro vita.
San Paolo ebbe a dire che attraverso i simboli impariamo ad apprezzare le cose invisibili
"e così tutti possiamo raggiungere Dio".
Dunque il simbolismo è un linguaggio non di astrazioni,
ma di sentimenti e di immagini, che aggiunge valore a un oggetto,
o a un atto, e lo rende più efficace.

Col tempo le cose sacre del cristianesimo sono diventate forse troppo magiche
e troppo scarsamente integrate con il mondo di altri simboli che ci circonda e,
pur nella loro semplicità, sempre più vanno perdendo i loro significati
a causa della nostra sempre maggiore incapacità a decodificarne i contenuti.

Pertanto, uno degli scopi di questo lavoro
è stato proprio quello di “far tornare a parlare” le testimonianze del culto popolare decifrandone l’antico linguaggio
per riuscire a cogliere anche la valenza antropologica delle scelte devozionali.


Spesso abbinate alle immagini sacre
si ritrovano semplici espressioni di canto rituale (giaculatorie cantilenanti e brevi canti) che, con lo scomparire dei nostri vecchi, vanno perdendosi.
Anche queste testimonianze meritano di essere strappate alla sola tradizione orale
e conservate, magari anche solo fermandole sulla carta,
poiché sono parte integrante del patrimonio delle tradizioni locali.



Poiché la lettura tematica di un territorio
(geografica, paesaggistica, monumentale, artistica, cultuale...)
non può essere disgiunta dal contesto storico,
l’indagine compiuta sul territorio di Ranco
finalizzata al censimento, lettura, datazione
ed eventuale individuazione della committenza delle testimonianze del culto popolare,
è corredata da una ricerca sui Catasti storici per verificare se i sei immobili
che accolgono le immagini sacre
-nelle quali peraltro compare sempre l’effigie della Madonna- vi sono censite.

Ne è risultato che
i cinque dipinti insistono su fabbricati censiti nel catasto cosiddetto di Maria Teresa (a. 1722),
mentre l’edificio che ha in adiacenza il capitello della Pietà
è presente nel catasto Cessato Lombardo-Veneto (a. 1856).
Relativamente al capitello, è però da rilevare che, in quanto struttura autonoma,
potrebbe essere stato preesistente al fabbricato,
ipotesi questa per la quale personalmente propendo.

18 Ottobre 2005 (San Luca)
Lucina CaramellaLucina CaramellaLucina CaramellaLucina Caramella

Bibliografia